Vale una “trasferta” a Torino – città di straordinaria eleganza – il “Don Carlo” di Verdi in programma in questi giorni al Teatro Regio. Il capolavoro verdiano, difficile da vedere e ascoltare per la complessità della partitura, la magniloquenza della messa in scena e la necessità di cantanti di prima grandezza, si replica fino al 23 aprile nel sontuoso allestimento di Hugo de Ana. Allestimento che appaga la vista, quest’ultimo, ma che suscita anche alcune perplessità per talune scelte registiche, vedi i movimenti delle masse nella scena dell’Autodafè.
Ciò detto, complessivamente più che soddisfacente la parte musicale, con l’ottima direzione di Gianandrea Noseda, prodigo di preziosismi e attentissimo a restituire la ricchezza cromatica e timbrica della partitura, sin dall’incipit affidato agli ottoni, che, con il loro suono scuro e tornito, scolpiscono immediatamente il clima cupo e severo dell’intera vicenda. E proprio tra gli ottoni dell’orchestra del Regio c’è la “voce” bresciana di Stefano Belotti, giovane trombonista dalla bella carriera, leader del gruppo Mascoulisse Quartet, apprezzato non solo in città e provincia. «Questa esperienza a Torino è davvero straordinaria – dice Belotti – e poi la musica di Verdi in quest’opera dà particolare soddisfazione a noi ottoni, chiamati a contribuire in modo importante alla tinta complessiva e a intervenire nei momenti topici. Il direttore Noseda è poi un maestro dal quale imparare molto».
Ramon Vargas è un Don Carlo giovanile e tormentato, vocalmente talvolta a disagio nell’acuto, ma comunque lodevole per la bellezza del timbro e la ricerca di un’interpretazione sfumata e varia. Al suo fianco, il soprano Svetlana Kasyan (in sostituzione dell’indisposta Barbara Frittoli) è un’Elisabetta convincente, dal bel timbro omogeneo, così come copiosi applausi raccoglie il baritono Ludovic Tézier, voce chiara ed estesa per un Rodrigo fiero e nobile. Ottimi l’Eboli di Daniela Barcellona e l’Inquisitore di Marco Spotti. Ma una menzione speciale merita il vero protagonista dell’opera: il Filippo II di Ildar Abdrazakov, la cui ampiezza e morbidezza timbrica nulla tolgono al tormento interiore del sovrano teso tra il dovere della sa condizione e i rovelli privati.